Donne, Diritto di Voto, Uguaglianza Sostanziale e Formale, Art. 37 della Costituzione, Global Gender Gap Report 2021, Donne e politica oggi.
EXCURSUS STORICO
La Finlandia, che sempre si distingue in fatto di uguaglianza di genere, ricoprendo la seconda posizione (su più di 150 paesi) della classifica del Global Gender Gap Report 2021, è stato il primo paese europeo ad introdurre il suffragio femminile nel 1906, seguita dalla Norvegia, oggi al terzo posto del Global Gender Gap Report, che ha esteso il diritto al voto alle donne nel 1913, mentre l'Islanda, al primo posto della classifica, ha concesso il voto alle donne, per le sole elezioni municipali, fin dal 1908, estendendolo totalmente nel 1915.
Altre date interessanti che riguardano il riconoscimento del diritto al voto alle donne:
1919 Germania,1928 Gran Bretagna, 1944 Francia,1945 Italia,1971 Svizzera,1893 Nuova Zelanda,1917 Russia, 1920 Stati Uniti, 1932 Brasile, 1934 Turchia, 1949 Cina e India, 1953 Messico, 1973 Giordania, 1976 Nigeria, 2003 Qatar, dicembre 2015 Arabia Saudita.
Come da evidenza storica, il suffragio universale fu introdotto in Italia in ritardo rispetto a ciò che accadde in altri paesi occidentali. Fu il secondo governo Bonomi, su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi, con Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 23 del 1° febbraio 1945, “Estensione alle donne del diritto di voto”, a decretarne l'attuazione.
Le Donne italiane votarono per la prima volta in occasione delle elezioni amministrative del marzo – aprile 1946 e del successivo Referendum Repubblica/Monarchia del 2 giugno, ma già nel 1924 le donne potevano votare solo per le amministrative, Benito Mussolini sulla carta aveva "concesso" tale diritto.
Molti concordano nel sostenere che questa fu una scelta di natura demagogica, considerata la contraddizione in atto rispetto alla decisione da parte del Regime di proibire qualsiasi elezione per comuni e province, sostituendoli con i podestà ed i governatori.
"La locuzione leggi fascistissime[1], o leggi eccezionali del fascismo[2], identifica una serie di norme giuridiche, emanate tra il 1925 e il 1926, che iniziarono la trasformazione dell'ordinamento giuridico del Regno d'Italia nel regime fascista.
Il compimento, ancorché parziale, di tale processo sarebbe avvenuto, però, soltanto nel 1939 quando, pur senza mutare direttamente gli articoli interessati dello Statuto del Regno, la Camera dei deputati sarà sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni, la cui composizione e la portata reale dei poteri ne escluderanno i caratteri di effettiva titolarità della rappresentanza nazionale e di co-titolarità, condivisa con il re e con il Senato, del potere legislativo[3].
le autorità di nomina governativa sostituivano le amministrazioni comunali e provinciali elettive, che venivano quindi abolite, Legge n. 237/1926;
In sintesi, queste leggi stabilivano che:
il Partito Nazionale Fascista era l'unico partito ammesso, con Regio Decreto n. 1848 del 6 novembre 1926 che prevedeva lo scioglimento di tutti i partiti, associazioni e organizzazioni che esplicano azione contraria al regime;
il primo ministro doveva rispondere del proprio operato solo al re d'Italia e non più al parlamento, la cui funzione era così ridotta a semplice luogo di riflessione e ratifica degli atti adottati dal potere esecutivo;
il Gran consiglio del fascismo, presieduto da Mussolini e composto da vari notabili del regime, era l'organo supremo del PNF e quindi dello Stato, con Legge n. 2693/1928;
con la legge sulle associazioni tutte le associazioni di cittadini dovevano essere sottoposte al controllo della polizia: Legge n. 2029/1925 (chiamata anche legge sulla Massoneria, principale associazione in linea di mira);
gli unici sindacati riconosciuti erano quelli fascisti; erano proibiti, inoltre, scioperi e serrate;
le autorità di nomina governativa sostituivano le amministrazioni comunali e provinciali elettive, che venivano quindi abolite, Legge n. 237/1926;
tutta la stampa doveva essere sottoposta a controllo, ed eventualmente censurata se aveva contenuti anti-nazionalistici e/o di critica verso il governo.
UGUAGLIANZA FORMALE E SOSTANZIALE
Fin dalle prime azioni di riconoscimento si pose il problema della così detta uguaglianza sostanziale; sebbene infatti la Costituzione garantisse l’uguaglianza formale fra i due sessi, di fatto restavano in vigore tutte le discriminazioni legali vigenti durante il periodo precedente all'1 febbraio 1945, in particolare quelle contenute nel Codice di Famiglia e nel Codice Penale.
Come dimostrano i dati attuali relativi ai bias di genere, al gender pay gap, al tasso di occupazione femminile, sebbene molti cambiamenti siano avvenuti in termini di superamento della discriminazione, molto ancora abbiamo da fare per ottenere il riconoscimento della completa parità.
"Real change, enduring change, happens one step at a time."
("Il vero cambiamento, il cambiamento duraturo, avviene un passo alla volta.")
affermava del resto, Ruth Bader Ginsburg, la giudice volto e voce dell’ala progressista della Corte Suprema degli Stati Uniti, attivista per i diritti delle donne, ricordata per aver messo la propria firma su una serie di storiche decisioni del tribunale in materia di uguaglianza di genere, diritto all’aborto, abusi delle autorità e affirmative action (la discriminazione positiva è uno strumento che mira a promuovere la partecipazione di persone con certe identità etniche, di genere, sessuali e sociali in contesti in cui sono minoritarie e/o sotto rappresentate.)
Tornando entro i nostri confini nazionali, la Costituzione repubblicana, riconosce l’eguaglianza degli uomini e delle donne in tutti i campi a norma dell’art. 3, che vieta, al primo comma, qualsiasi discriminazione basata, tra l’altro, sul sesso e che, al secondo comma, impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che si frappongono ad una eguaglianza di fatto.
Con specifico riferimento alla famiglia, l’art. 29, secondo comma, stabilisce che «Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare»,
mentre l’art. 31 afferma che «La Repubblica…Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo».
In materia di lavoro, l’art. 37 dispone che «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore», ma che «Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione». Sia nel lavoro che in famiglia la Costituzione si impegna dunque a garantire non solo la parità tra uomo e donna, come eguaglianza formale, ma anche l’eguaglianza sostanziale, tenendo conto delle particolari esigenze delle donne, soprattutto in relazione alla maternità.
Ciò detto il passaggio dell’art. 37 alla «essenziale funzione familiare» della madre ha fatto e continua a fare molto discutere, può essere ritenuto discriminatorio poiché ribadirebbe che la donna è “naturalmente” destinata ad occuparsi della cura, dell’educazione dei figli e della vita familiare.
Con riferimento alle attività pubbliche, è garantita solo l’eguaglianza formale, come parità di trattamento, poiché l’art. 51 si limita ad affermare che «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge». Il Costituente non ha quindi ritenuto necessario tutelare in modo specifico l’accesso delle donne agli uffici pubblici e alle cariche elettive.
SITUAZIONE ATTUALE SECONDO IL GENDER GLOBAL REPORT 2021
Il Global Gender Gap Report, introdotto dal Forum economico mondiale nel 2006, fornisce un quadro che mostra l'ampiezza e la portata della divario di genere in tutto il mondo. Per ogni nazione l'indice fissa uno standard del divario di genere basandosi su criteri economici, politici, educazione e salute, e fornisce una classifica dei paesi, permettendo un confronto efficace sia tra regioni che gruppi di reddito nel tempo. Le classifiche sono state realizzate per creare maggiore consapevolezza a livello mondiale. La metodologia e l'analisi quantitativa sono destinate a servire come base per la progettazione di misure efficaci per la riduzione delle disparità di genere.
La tabella 1.1 presenta le classifiche del divario di genere globale 2021 e i punteggi per tutti i 156 paesi analizzati dal rapporto di quest'anno. I primi due paesi (Islanda e Finlandia) hanno colmato almeno l'85% del loro divario e altri sette paesi (Lituania, Namibia, Nuova Zelanda, Norvegia, Svezia, Ruanda e Irlanda) hanno superato almeno 80 % del loro divario.
Tuttavia, nessun paese ha ancora raggiunto la piena parità di genere.
Il Global Gender Gap Report, dedica una sessione specifica di analisi al Political Empowerment,
area in cui il divario di genere resta più ampio. Sebbene l'empowerment politico sia migliorato di almeno lo 0,1% in 92 paesi, solo il 22,3% del relativo divario è stato finora superato, e anche il Paese più virtuoso, l'Islanda, deve ancora colmare il 24% di questo divario.
Tanto resta ancora da fare per raggiungere l'uguaglianza e la parità in politica nella maggior parte dei paesi. Di circa 35.500 seggi parlamentari su 156 paesi coperti dall'indice, solo il 26,1%. sono ricoperti da donne.
Solo il 22,6% degli oltre 3.400 i ministri di tutto il mondo sono donne. In nove paesi (Armenia, Azerbaigian, Brunei Darussalam, Papua Nuova Guinea, Arabia Saudita, Thailandia, Vietnam Nam e Yemen) non ci sono affatto ministri donne.
Esaminando le più alte cariche politiche dei paesi, pochissime donne hanno ricoperto il ruolo di capo di stato negli ultimi 50 anni. In 81 Paesi (oltre la metà dei 156 paesi valutati quest'anno), non c'è mai stata una donna in questa posizione, compresi i paesi considerati relativamente progressisti rispetto alla parità di genere come Svezia, Spagna, i Paesi Bassi e Stati Uniti.
Se da un lato la delusione da parte delle donne italiane è risultata evidente rispetto alla non elezione di una Presidente Donna, alcuni altri segni positivi tuttavia ci rassicurano sull'esistenza di un cambiamento in atto.
Una delle ultime notizie in tal senso è stata l'elezione di Roberta Metsola come nuova Presidente del Parlamento europeo, lo scorso 18 gennaio, al primo turno con 458 voti. Il numero di votanti è stato 690, le schede bianche e nulle sono state 74, i voti espressi sono stati 617.
La politica maltese è la più giovane presidente dell'Assemblea di Strasburgo e la terza donna nella storia del Parlamento europeo, dati questi certamente non trascurabili.
Analizzando lo scenario internazionale sempre più donne hanno ricoperto negli ultimi anni posizioni di comando, di leadership all'interno dei governi e delle istituzioni europee e oltre oceano, gli esempi più noti sono certamente la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, l'attuale presidente della Banca Centrale Europea, Christine Lagarde e Angela Merkel, Cancelliera federale della Germania dal 22 novembre 2005 all'8 dicembre 2021, senza dimenticare l'ondata di positività generata dalla nomina di Kamala Harris, 49ª vicepresidente degli Stati Uniti d'America dal 20 gennaio 2021.
Restando nella cara Europa, analizzando i governi delle Nazioni che non fanno parte dell’Unione Europea, si distinguono, tra i paesi più virtuosi, la Norvegia con 9 Ministre su 17, il 52,94%, maggioranza, e l'Islanda in cui le Ministre sono 4 su 11, il 36,36% e può vantare una Prima Ministra al secondo mandato: Katrín Jakobsdóttir.
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